IL COLESTEROLO NON PROVOCA L’INFARTO, MA È UN
AFFARE PER CHI VENDE FARMACI
Il colesterolo non provoca
l’infarto, ma è un affare per chi vende farmaci
Finalmente. Il fatto che uno dei tanti megafoni
delle finte crisi sanitarie degli ultimi anni – il Corriere della Sera - abbia dedicato lunedì ben due pagine alle bufale degli anni passati
è un buon segno. Certo, ci sarebbe piaciuto essere stati meno isolati quando
invitavamo a ragionare sui numeri e a non farsi trascinare dall’isteria
(pilotata da potenti interessi), quando insomma scrivevamo che non saremmo
morti di mucca pazza, né di Sars o di aviaria, ma che sarebbe stato più
probabile venire spazzati via da un Suv o morire di rifiuti tossici.
Stessa cosa si può dire per l’allarme “bioterrorismo” in nome del
quale sono stati elargiti fior di milioni – basti pensare all’epopea dello
Spallanzani – per fronteggiare la fantomatica epidemia di antrace rivelatasi,
anche quella, una bufala.
Ben vengano
le riflessioni su quei cinque-seicento milioni di euro buttati via per
prevenire le (false) epidemie in arrivo mentre negli ospedali mancano posti
letto e infermieri, ma vediamo come se la cavano i colleghi nello smascherare
le bufale di oggi, quelle che continuano a risucchiare fondi e a suscitare
paure prive di fondamento.
E, se i dati
dei nuovi studi verranno confermati, certo quella del colesterolo potrebbe
delinearsi come la madre di tutte le bufale.
All’inizio di
febbraio è stata infatti resa pubblicata una ricerca che smentisce uno dei
dogmi della medicina degli ultimi anni ovvero la stretta correlazione fra colesterolo e infarto. Lo studio Enhance ha dimostrato che due farmaci
anticolesterolo (l’ezetimibe che ne inibisce
l’assorbimento intestinale e la simvastatina che ne riduce la produzione nel
fegato) non apportano
alcun beneficio alle nostre arterie.
Insomma:
anche se i farmaci abbassano il livello di colesterolo presente nel sangue non riducono il rischio di infarto.
Lo studio,
condotto e finanziato dai produttori dei due farmaci, è stato tenuto nel
cassetto per due anni prima di arrivare alla pubblicazione di oggi. Nel
commento del corrispondente della rivista Science Gary Taubes, pubblicato
sull’Herald Tribune del 6 febbraio, viene spiegata l’origine dell’equivoco: in
sostanza si è sempre confuso il colesterolo con le proteine che lo trasportano,
le lipoproteine appunto.
Ma il colesterolo può essere buono a seconda che sia veicolato da lipoproteine a alta densità (Hdl) o a bassa
densità (Ldl) e niente dimostra che sia lui il vero nemico visto che l’infarto
colpisce anche persone con valori normali.
I due farmaci
presi in considerazione dallo studio Enhance, infatti, pur abbassando il
livello del colesterolo non prevengono affatto la formazione delle placche.
Insomma, dopo
anni di disgustosi beveroni, faticose rinunce e culto dei mitici omega 3, viene
fuori che il colesterolo alto non fa male: una vera e propria rivoluzione che
però, anche se è stata diligentemente riportata da qualche quotidiano
nazionale, non ha minimamente interrotto il constante flusso di spot che ci
consigliano questo o quel prodotto né, tanto meno, ha suscitato il mea culpa
della comunità medica per avere tanto entusiasticamente abbracciato il verbo dell’industria
farmaceutica.
Bisogna
sottolineare che la stessa cosa accade negli States dove la Food and Drugs
Administration, l’ente americano per il controllo delle medicine che alla fin
fine detta la linea a tutto il pianeta, continua a
registrare farmaci per la prevenzione delle malattie cardiache solo in base
al fatto che riducono le lipoproteine che trasportano i grassi nel sangue
mentre le autorità sanitarie continuano a condurre campagne di prevenzione
mirate alla riduzione del colesterolo.
Gli interessi dell’industria farmaceutica nel
settore delle malattie cardiovascolari sono
evidenti – basti pensare quanti milioni di pazienti hanno continuato la terapia
nei due anni durante i quali lo studio Enhance è stato tenuto in stand-by. In
effetti, grazie alle dissennate abitudini alimentari dell’Occidente e
all’allarme diligentemente pompato dai media, il mercato dei farmaci anti-colesterolo fa impallidire quello delle finte epidemie: il settore registrava un
fatturato di 36 miliardi di dollari già nel 2003 e attualmente più di 40
milioni di statunitensi sono in cura.
Sul Corriere del 7 febbraio scorso Adriana Bazzi scriveva: «Le
industrie hanno tutto l’interesse a promuovere l’ipotesi colesterolo, ad
allargare la quota di consumatori di farmaci anticolesterolo (lo hanno fatto
riducendo sempre di più i livelli normali nel sangue in modo da creare più
“malati” come ha già denunciato il British Medical Journal) e a giocare
sull’ipotesi colesterolo buono (da aumentare) e cattivo (da ridurre) per
proporre nuove molecole dal momento che stanno scadendo i brevetti di quelle
vecchie».
Bazzi si
riferisce al 2004, quando oltreoceano vennero definite le “nuove linee guida”
che crearono, dal nulla, ben 7 milioni di malati in più.
Quando
scoppiò la polemica venne fuori che ben 6 dei 9 membri che formavano la
commissione erano noti per le loro frequentazioni con le case farmaceutiche e
si scoprì che l’autore di uno studio relativo ai problemi cardiovascolari era
collegato con ben 20 compagnie che producono medicinali e “attrezzature” per il
cuore.
Conflitto
d’interesse? Non scherziamo.
Nel mondo
anglosassone il fatto che gli studi sull’efficacia di un farmaco vengano
finanziati dal suo stesso produttore non desta scandalo, basta che venga
dichiarato pubblicamente.
Per sapere
come va dalle nostre parti, dove in genere il conflitto d’interesse non viene
nemmeno esplicitato, consigliamo la lettura del bellissimo libro scritto da
Marco Bobbio nel 2004: “Giuro di esercitare la medicina in libertà e
indipendenza – Medici e industria”.
Consulente
Medicina Cellulare: Emanuele Sblendorio
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